Aristotele diceva che l'uomo è un animale sociale, l'essere umano non può vivere senza gli altri, qualsiasi posizione assuma nella società vive sempre in relazione con gli altri; perfino nel sogno ci sono gli altri e non solo gli amici occupano costantemente la nostra coscienza e ci incatenano a loro, ma anche i nemici possono farlo, addirittura con maggior efficacia, divenendo i cardini attorno ai quali la vita scorre in una relazione dolorosa. Gli altri possono quindi costituire fonte di gioia, soddisfazione e nostra ispirazione o di sofferenza e sentimenti negativi; certo è che hanno un'influenza notevole sullo sviluppo della nostra personalità e ne siamo in qualche misura dipendenti. Che siamo dipendenti da amici o che siamo dipendenti da nemici, siamo sempre nella necessità di rapportarci agli altri. Gli altri rappresentano inoltre il nostro banco di prova, la nostra cartina di tornasole, il nostro metro di confronto: una persona non sa nemmeno quel che vale se non si raffronta con gli altri, un bambino non impara né a camminare né a parlare senza gli altri. Dunque, l'essere umano non può esistere senza gli altri, perde anche la cognizione di sé, a meno che non sia così evoluto spiritualmente da avere realizzato la propria natura assoluta, la nitya svarupa, cioè quella identità ultima che è la sua vera intima essenza, eterna, immutabile ed indipendente da circostanze esteriori. Se nel relativo gli altri sono essenziali per tutte le ragioni sopraccitate, nell'assoluto lo sono in quanto oggetti della nostra compassione, destinatari del nostro amore, terminali della nostra relazione d'affetto: quindi non per prendere, ma per dare. L'assoluto porta in sé un’auto-soddisfazione, un’auto-soddisfacimento, una beatitudine tutta interiore, per cui gli altri non sono più il nostro nutrimento essenziale, ma sono elementi a cui inevitabilmente ci sentiamo connessi ed in armonia in quanto figli di uno stesso Creatore. Tale processo inizia quando inizia la realizzazione e culmina al momento della realizzazione spirituale: essa avanza per gradi e nella misura in cui il soggetto gradualmente evolve, scopre gli altri quali oggetti del suo amore. La società sarebbe un nome astratto se non fosse composta di donne e di uomini, di individui che lottano per raggiungere la felicità, la libertà o lottano anche semplicemente per conoscersi, per sapere chi sono, per comprendere la natura delle loro inclinazioni, la natura dei loro istinti, la natura dei loro bisogni e dei loro desideri.
Tratto da “Io e gli altri nel gioco della vita”, Corso serale di 3 lezioni tenute presso l'Aula Magna Fondazione Studi Bhaktivedanta (20 e 27 Novembre, 4 Dicembre 2008).
Tratto da “Io e gli altri nel gioco della vita”, Corso serale di 3 lezioni tenute presso l'Aula Magna Fondazione Studi Bhaktivedanta (20 e 27 Novembre, 4 Dicembre 2008).
Ringrazio la prospettiva vedica di poter osservare gli altri come anime spirituali in viaggio, oltre la maschera assunta temporaneamente nel contesto in corso...
RispondiEliminaQuando, dopo un progressiva evoluzione spirituale personale ,raggiungiamo la consapevolezza di essere parte del SE' Universale,ci rendiamo conto che anche i nostri simili fanno parte dello stesso SE',cioè siamo tutti parte della stessa Coscienza Universale.La conclusione è ovvia: non possiamo che amare gli altri perchè siamo tutti UNO.Quando anche gli altri raggiungeranno la stessa consapevolezza dovrebbe finire l'era del Kaliyuga.
RispondiEliminaVarieta' nell'unita', ognugno con una sua personale forma, ma comunque parte del Divino e in relazione con Lui
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